La storia di Zeta

Il collettivo ZTL è nato per cercare delle pratiche che riuscissero a liberare potenzialità di abitazione e autorganizzazione dello spazio comune. Una pratica che provasse a rispondere allo svuotamento delle strade e delle piazze della nostra città, che riproponesse al centro della vita di ogni giorno il momento dell’incontro, della condivisione e del confronto. Una città non è vuota perché insicura, ma è insicura perché vuota. Contro al modello delle ronde, che militarizza un territorio già spoglio e diffidente cercando una impossibile legittimità nella continua invenzione di capri espiatori, che siano i lavavetri, i rom, gli immigrati in genere, gli ultras, le prostitute, noi abbiamo proposto un modo di agire che costantemente ricordasse che non c’è sicurezza, per nessuno, senza giustizia sociale.
Siamo partiti da quello che più ci mancava nel vivere la nostra città, e non trovando risposte nelle Istituzioni, abbiamo provato a pensarci da soli. Siamo così partiti dai nostri quartieri, dalle piazze della nostra infanzia, dallo stadio, dalle scuole e dall’Università. Una rigorosa pratica di autorganizzazione ha sempre contraddistinto le nostre iniziative.

Firenze è una città bellissima che si è sempre più chiusa su se stessa. Si è frammentato il suo tessuto sociale, sono spariti i vecchi quartieri e i negozi antichi, le piazze sono vuote e i giardini mal curati. E tutto questo ha consegnato all’insicurezza e alla solitudine la percezione della nostra vita cittadina.
Una rete di solidarietà e di sicurezza naturale è quella che crea il quartiere. E in una Firenze consegnata agli interessi speculativi e modellata sui gusti usa e getta dei turisti gli spazi come detto sono pochi, ma gli spazi vengono trovati da chi li abita e ufficializzati attraverso la pratica. I quartieri erano in fondo un grande spazio comune e tale devono tornare a essere.

Buttare Firenze all’aria è ricrearvi uno spazio di autorganizzazione. Qual è allora la memoria storica e l’identità da riattivare, quale la produzione di conflitto (perché autorganizzazione nella nostra società è immediatamente conflitto) da mettere in atto? Questo ZTL si è chiesta, quando nel dicembre del 2007 ha iniziato a riunirsi al Cpa Fi-Sud.

Da allora abbiamo fatto la nostra prima apparizione il 25 aprile del 2008 in piazza S.Spirito insieme alla Firenze Antifascista, abbiamo restaurato a nostre spese e con le nostre forze, coinvolgendo per diversi lunghissimi pomeriggi i bambini che giocavano là con i loro genitori, il campetto di piazza D’Azeglio, abbandonato alle buche e ai cani. Il 25 maggio, una domenica pomeriggio, abbiamo inaugurato il nuovo campetto con un torneo di calcio composto da 9 squadre del quartiere e comunità immigrate. Per tutto il pomeriggio fino alla notte la piazza è stata riempita di persone che mangiavano, suonavano, giocavano, guardavano le partite. In esplicita contrapposizione al Regolamento di Polizia Municipale voluto da Cioni la notte è stato montato un palco e c’è stata musica blues ed elettronica, senza che nessuno si sia lamentato, e anzi furono raccolte più di mille firme di solidarietà all’iniziativa.

Poi c’è stato il Progetto Agorà. L’idea era quella di liberare le piazze, con la musica, con le cene popolari, con il teatro, e insieme di riportare la discussione politica in piazza. Il tema scelto fu quello della sicurezza. In piazza Elia Della Costa a Gavinana, con il Cpa, abbiamo parlato di come le politiche securitarie modellassero lo spazio urbano.
Sotto la Fiesole dello stadio Franchi abbiamo parlato di come la repressione allo stadio coinvolga ogni spazio pubblico, e sia il laboratorio di brutali e viscidi modelli di gestione del conflitto sociale estesi poi alla società intera.
In piazza Indipendenza, con centinaia di persone, abbiamo affrontato il tema dell’immigrazione, lasciando il microfono aperto ai migranti, agli abitanti del quartiere di S. Lorenzo, a chi lavora nel Mercato Centrale, alle associazioni, ai militanti. Dalle parole dei migranti, molti passati lì per caso e fermatisi poi per tutta le serata, risultò chiaro che sicurezza è arrivare a fine mese, è un lavorare non a nero, è un reddito non precario, è un tetto sulla testa, è non morire sul lavoro; condizione purtroppo estranea a una rilevante quota di popolazione, indipendentemente dal colore della pelle.

Con l’autunno abbiamo partecipato alle agitazioni contro la Riforma Gelmini, ognuno dentro la propria scuola o università o coordinamento territoriale nato al seguito delle assemblee tra genitori e insegnanti, perché abbiamo riconosciuto in questo attacco alla Scuola Pubblica un attacco direttamente ai bisogni materiali delle famiglie, dei lavoratori, dei bambini, della città dunque, specie oggi che la soddisfazione di bisogni essenziali come la sanità, la casa, la semplice spesa, un lavoro non precario, è ancora più in pericolo per gli effetti di una crisi economica che non fa solo crollare i titoli in borsa, ma si ripercuote sulla nostra pelle attraverso il caro-vita.
Questo problema è stato riconosciuto come un problema di tutti, e come tale abbiamo tentato, a volte con più e a volte con meno successo, accanto ai tanti mobilitatisi in quei mesi, di portarlo in tutto il quartiere e in ogni spazio sociale, nei mercati, nei supermercati, nelle piazze e nei giardini.
Il tentativo, che non rinneghiamo ma verso cui anzi ci rivolgiamo sempre di più, è stato quello di socializzare le lotte con il mondo del lavoro, in modo da rovesciare la crisi sul territorio e condividere momenti e spazi di conflitto autonomo e autorganizzato. Così da socializzare dentro il territorio un’unica lotta.

A Capodanno con un furgone abbiamo girato tutta la notte per il centro di Firenze con una street parade non autorizzata, che riaffermasse il nostro bisogno di attraversare a nostro modo la città.
In questo anno abbiamo ricevuto numerosi aiuti e abbiamo collaborato con il Cpa, con gli Ultimi Rimasti Lebowski, con l’assemblea dell’Accademia in lotta, con l’Associazione Aurora, con gli Studenti Autorganizzati, con i migranti del Luzzi, e con le tantissime altre associazioni e collettivi che hanno partecipato alle nostre liberazioni di piazza.
Dopo un anno siamo ancora convinti del bisogno di riconoscere il carattere comune di spazi e relazioni che sono lasciati alla discrezione del potere della ricchezza come il primo passo verso una trasformazione della nostra vita, privata come pubblica, e della necessità di trovare strade per affermare l’espressione politica diretta di soggetti, come noi, che solo nella partecipazione possono rivendicare uguaglianza.

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